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su libro dei vivi recensione di Gianfranco Fabbri



Qualcuno ha definito giusta
mente l’ultima fatica di Stefano Massari, “Il libro dei vivi”, come un’opera religiosa. Io aggiungerei, di una religiosità naturalistica e viscerale. In queste poesia-prosa (o prose poetiche e d’arte), l’autore mette in scena con nettezza l’”invocazione al Padre” strutturandola secondo i toni greco-tragici e secondo la presenza fittissima di assonanze-ripetizioni -sia di termini che di suffissi desinenze-. Là dove è possibile imbattersi nel “sacro” è anche possibile vedere da vicino il senso “igneo” delle cose. L’insieme di questa scrittura è un vero e proprio atto di rivolta nei confronti dell’Ente Superiore. I testi appaiono come isolotti di carne vivida e dolorante, sopravvissuti a ere remote. Ci si imbatte nell’alcool e nel sangue; non mancano l’odio e il pus; non manca neppure una specie di sotto-dio bestia -profonda oscurità- la cui condizione pre-animale sconcerta. Tra uno spazio e l’altro del respiro, si insinuano micro frasi nominali che annunciano verità biologiche inerenti al dio che si nasconde nella propria bestemmia. A pagina 16 gli aggettivi possessivi infettano il testo e lo blindano in una geometria passionale. Alla pagina successiva, le frasi si preannunciano come sconnesse, e additive, ma solo per un’autentica necessità (ad esempio, parafrasano i singulti) ( “…da tuo sguardo troppo lento per vedere me bellissima di muso incapace di lamento tu illuso che ritorno e non uccido mai di giorno …”). Uno dei sensi che mi è parso di interpretare in questa raccolta di Massari è il lascito testamentario “di padre in figlio”, là dove il primo avanza forme di inusitata delicatezza -pur nell’infinita bestialità dell’istinto- che intona: “… ma feroce sulle labbra…”).
Il linguaggio è di tipo semi-automatico ed è pure apparentemente incapace di organizzare un discorso in superficie; una sorta di voce-getto-vomito che sale dai fondali dell’ID, profondo e umano. Le assonanze, come già ricordato, veicolano la musicalità (perfetto l’esempio di pagina 39 con: totale-verticale; mano, chiamo, piano; legamento, nutrimento).
Massari rimanda al proprio vissuto, al presente che vive, ma non usa gli oggetti e la lingua dell’”esterno al sé”. Egli, come già detto, affonda nel buco nero che squarcia il suo interno e travalica qualsiasi temperie storica e ambientale; si è (o ci fa essere) in una specie di realtà oltremondana, dove è naturale antropomorfizzare il mattino (che ha sete) o quant’altro gli sembri opportuno. Il libro è detto dei vivi, ma i protagonisti sono vivi nel mondo e nel linguaggio dei morti. (pagina 21: “Tu non sai quanta morte mi scampi/ogni volta con la mano e la fronte/che ti cerchi un riparo nel mio torace pesante//”). Un tale universo risulta essere altare di sangue e di infezioni; non dà sicurezza; si evoca da solo ed evoca la luce (la quale diventa persona e anche disillusione). Stefano vive alle radici dell’albero, all’interno cioè della polis vegetale, dove “costruire una casa con questa pelle di padre”. Ma, pagina dopo pagina, il mistero si allenta e ci fa segno di poterlo intendere, nel senso del passaggio del testimone, “da padre in figlio” appunto. Ovvero, il figlio che ha un proprio erede (un suo socio-sicario) presso cui essere dio o sottodio. Ritorna allora il fuoco e con esso la luce-verità. Da pagina 31 in poi ricorre l’acqua; tornano più numerosi gli alberi probiviri di una società occulta; torna la nutrizione; si rimette in pista l’elemento terra-madre, che introduce la catabasi (…nelle fosse, nelle tombe e tra le maglie avvolgenti di piccole morti quotidiane).
Come inquadrare questo libro di Stefano Massari?
Quali nobili padri dargli per coordinate?
Difficile dirlo.
Non credo vi siano antenati nel nostro Novecento italiano.
“Il libro dei vivi” parrebbe non avere padri.
O, perlomeno, occorrerebbe cercare altrove: chessò, nel deserto del nord-Africa, o nel sangue, beato e maledetto, della bestia che ci è primate.

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