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Ancora non sai cosa vuole la morte da te

La poesia di Stefano Massari 
MARCO MOLINARI 

Del diluvio universale raccontato nella Genesi si tende a porre in evidenza l’aspetto della salvezza, l’arca dell’alleanza con la quale Noè, uomo giusto, ha messo in salvo il genere umano e gli animali che poterono riprodursi e avviare una nuova creazione. Rimane in ombra la causa del diluvio, la volontà di Dio di distruggere ogni uomo, farlo perire: E Dio disse a Noè: “Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta; poiché la terra è piena di violenza a causa degli uomini; ecco, io li distruggerò, insieme con la terra.” (Genesi 6, 13). Vi sono poeti che hanno deciso di fare i conti con questo impietoso retaggio, rendendolo oggetto di un serrato faccia a faccia. È il caso della raccolta di Stefano Massari, Macchine del diluvio, pubblicata da MC edizioni. Massari vive a Bologna e ha alle spalle alcune precedenti raccolte, nonché un intenso lavoro su progetti sviluppati sul web, riviste e collane di poesia. Ricordiamo tra il 2000 e il 2010, “FuoriCasa. Poesia”, “SECOLOZERO”, “Land” e “CARTABIANCA”. Attualmente, assieme alla moglie Carlotta Cicci, cura il format di video poesia “zona | disforme”, visibile su Youtube.

La prima sezione ha un titolo emblematico: I primi dodici morti, e sono letteralmente altrettanti incontri con persone che hanno lasciato la vita, esposti con uno stile franto, così come la morte spezza l’essere al mondo con il proprio corpo. Ecco, in questi addii di uomini e donne, con cui l’autore ha fatto esperienza della morte, è proprio il corpo ad essere posto in primo piano, con il suo progressivo decadimento, il suo spegnersi e annullarsi, la distruzione di sé come sacrificio per chi arriverà dopo, come espiazione per le generazioni future, se mai ci saranno:

sei volte annunciata   arrivò la morte
dell’amico più grande   che diceva ormai
di neanche pregarla   che non c’era bisogno
perché la pelle   era già vetro   abbastanza
e l’ago andava infilato caldo   e buono
anche per l’osso   e piano   piano   piano
così non avrebbe lottato   ma pianto
all’infinito   e dormito   con i topi nel letto
che per rispetto   gli avrebbero mangiato
soltanto una mano   la madreperla mano

Sono veri e propri appuntamenti con i corpi martoriati, quelli che Massari riporta nella sua poesia, e anche dialoghi con morti che non hanno nome, ma intessono un filo genealogico di padri, madri e figli, che sempre emerge per ricordare la continuità dell’uomo nel suo destino di dolore che non ha fine. Viene detto nell’epigrafe al capitolo, citando il poeta greco Ghiannis Ritsos: “ora lo so: l’ultimo a morire è il corpo”; prima, però, la morte si insinua nella vita, rode poco a poco, scarnifica, porta avanti un suo progetto di distruzione, che questi quadri da obitorio raccontano, con un linguaggio denudato, in bianco e nero, senza indulgere in effetti scabrosi, ma anche senza alcuna elegia da morte eroica, dentro la luce di un tramonto. Come ascendente illustre, viene in mente il poeta francese François Villon, in particolare la sua Ballade des pendus, che trova molte analogie con il testo dove Massari rievoca una morta impiccata e lo fa con il medesimo realismo, soffermandosi su particolari che denunciano lo scandalo del corpo appeso e finendo con un’imprecazione a Dio sul perché questa morte sia accaduta, che si accomuna all’invocazione di Villon a coloro che vedranno il triste spettacolo degli impiccati, affinché preghino per loro e con ciò siano assolti dalle fiamme infernali.    

È evidente che per Massari il diluvio è tuttora in corso, i motivi che Dio aveva per essere in collera con l’uomo, nel periodo attuale sono aumentati a dismisura, siamo in balia dell’“architettura sconosciuta della morte”, in cui siamo immersi, senza più un’arca a garantire una possibile salvezza. Sono le due sezioni centrali, Figure del diluvio e Macchine del diluvio, che forniscono al lettore un elenco allucinato di situazioni al calor bianco, dove l’uomo, l’umanità, stanno per essere sommersi da una colata di mostri e di assurdo dolore, da loro stessi creata. Le figure che emergono da questa catastrofe in atto sono quelle che spuntano dagli schermi dei dispositivi con cui accediamo al mondo, sono quelle nascoste nelle fessure della società, con maschere e trucchi, perché tutto oggi deve possedere più facce, essere ambiguo, scambiare vita e morte con la stessa indifferenza:

la santa incoronata
promessa sposa   sudata   di temperanza
e rancore   che ogni mattina   pulisce le guerre
le razze  il tumore  con gesti di scure e carità
inflitta   nella stretta fessura del grembo
dove gira per sempre   l’ultima ruota
del nostro carro


Uomini, animali e macchine, materia animata e inanimata, compongono la parata infernale che osserviamo in silenzio, senza potere fare nulla, spettatori impotenti di un mondo che merita di scomparire, ma che nel suo franare trascina con sé tutti noi. Eppure ognuno può chiedersi, come fa l’autore in un’epigrafe, scritta da lui: “anni che ascolti e resisti e credi/ ma ancora non sai cosa vuole la morte/ da te”. Per Massari alla poesia non spetta il compito di addolcire il diluvio, non lo deve, come ammonisce Fortini, uno dei suoi maestri, “rappresentare”, ma fare verità con una parola che ha la durezza dei metalli e la luce spettrale delle lampadine da pochi soldi, tracciando un elenco, che sembra non finire mai, di persone trafitte, di oggetti costruiti per portare violenza, di immagini desolanti. L’autore non ha ragioni per spiegare il disastro, il mondo di fuori è questo, la colpa è di tutti e di nessuno, riceviamo la punizione e non abbiamo da appellarci a un Dio che è appannaggio di chi “è felice nella fede  praticante”, o “ai governanti dell’ordine e disordine”, di chi, in altri termini, può solo “sputarci il suo perdono”. Una visione senza via di uscite, neppure quella della religione, né di una stanza, un’isola, una navicella nello spazio, in cui portare con sé quello che si vorrebbe salvare in un futuro da immaginare diverso, migliore.

Eppure, uno sprazzo di sereno nell’imperversare del diluvio, Stefano Massari lo porta sulla pagina, ed è nella quarta parte della raccolta, dal titolo Diario nostro. Già l’uso dell’aggettivo possessivo dopo il nome, accentua l’esclusività di quel diario, che intende isolarsi dagli assalti di quell’aura di morte che domina i precedenti capitoli. Il preludio a queste prove di resistenza è dato dal ritorno alla città natale, Roma, e inizia con un’invocazione corale a “questa città gloriosa”, che non elimina certo le brutture che anche di essa fanno parte; ma lì, nel ventre caldo che l’ha gettato nel mondo, l’autore percepisce una calma nuova, la possibilità di un addio finalmente pacificato:

(…) 
l’ultima distanza prima del luogo
dove ci lasceranno innocenti un attimo
di calma enorme da riconoscere ma semplice
da custodire ogni prossima mattina
di questa vita nel mondo”  

A poco a poco, i toni si fanno più distesi, Massari sembra trovare un rifugio dove poter ripararsi, una minuscola arca in cui portare in salvo la propria umanità. Si tratta del rapporto di affetto, caldo ed esclusivo, con la persona amata, quella chimica che scaturisce fra due persone innamorate, che alla fine salverà ancora il mondo: “ti poso le labbra sugli occhi/ mentre dormi  faccio piano”. È l’amore che prorompe, con tutta la forza dei corpi finalmente liberati, dei figli che sono i suoi fiori e sentinelle. Il male esiste ancora, ma è riconosciuto, e non fa più paura:

guarda   ti vengo dentro   e riesco a pregare
le cose vive    che non sanno obbedire o disobbedire
ora che con la schiena mi cerchi mi spingi   libera
da tutto anche da me e senza più paura e destino
mi stringi tutto il bene e il male del mondo   ora
che solo in ogni tuo giorno conosco la parola
del mio

Macchine del diluvio
di Stefano Massari
MC Edizioni

Prezzo: euro 11,20


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