Caro Stefano,
il "Libro dei vivi" somiglia ad un percorso iniziatico, a una via verso la notte piu' pura o - e' lo stesso - verso una luce senza occhi.
Mi ha fatto pensare al "Libro ribetano dei morti"; all'estasi delle anime che percorrono i loro destini senza sapere che quello - e solo quello che vivono - e' il loro proprio destino. Ma nel "libro tibetano" i morti si legano alle parole che indicano la salvezza; nel "Libro dei vivi" sono le parole che incarnano la salvezza: nessun luogo, nessuna direzione, solo una voce, un grido, un fuoco.
Il sangue e' vino, morte e amicizia; il tempo e' sempre battito cardiaco; l'amore e' carne e imperativo.
E' un libro violento, nel senso piu' definitivo.
E' violenza primitiva, senza essere tribale; arcaica senza la grazia del simbolico.
Nessuna chiacchiera decostruttivista, nessuna lacrima parnassiana, o - peggio - tributaria di un romanticismo mal compreso.
Eppure e' una strana violenza, per nulla dionisiaca. E' una violenza dolorosissima che si autoinfligge la tortura della lucidita' prima che quella dell'uscita dal principio d'individuazione.
Nabokov rispondeva: "L'opera la riconosci dai brividi lungo la schiena".
Il "Libro dei vivi" da' questi brividi, ma e' anche un ingresso ex abrupto nel sacro: sacro come indistinzione, come caos, come materia di un inizio che ritorna. E' come una porta chiusa un istante prima dell'annientamento: restano materiali che non appartengono al mondo (e non so da dove provengano: "cielo", "Ade", "iperuranio" sono solo definizioni, non esperienze, mentre qui conta solo quella).
Scusa se non ti ho scritto prima e se questa mia non e' che un avvicinamento approssimativo. Approssimativo, ma spero nella nostra direzione.
Ti abbraccio, Lorenzo