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recensione di Sergio Rotino al libro dei vivi



Romano, ma da anni attivo a Bologna dove risiede per lavoro, Stefano Massari arriva alla seconda raccolta poetica proponendo con Libro dei vivi – edito nella sempre interessante collana “Fuori casa” curata da Alberto Bertoni – una sorta di “protoromanzo in versi” di grande tensione espressiva. Le pre
messe erano in buona parte già racchiuse nella sua prova d’esordio, quel Diario del pane pubblicato da Raffaelli editore nel 2003, che lo aveva visto definire con buona precisione il perimetro del suo lavoro:
l’inserimento nel dettato poetico di alcuni simboli appartenenti alla tradizione cristiana, ma letti in chiave laica, e l’uso di una cadenza espressiva imparentata con forme primigenie di teatro. Ma se lì trovavamo soprattutto una esposizione profondamente assertiva, quasi dogmatica dei temi, probabilmente dovuta anche a una verifica della voce usata per esprimersi, Libro dei vivi opera su un altro fronte. Prima di tutto, i testi tendono a essere più lunghi, a raccordarsi in serie variamente titolate (parole della volpe, serie dei chiodi ecc.), ad assumere cadenze prosastiche e narrative. In secondo luogo mutano i toni, che da “aggressivi” diventano spesso dolenti, riflessivi. A marcare questo passaggio concorre l’eliminazione di un elemento che ha segnato per lungo tempo la scrittura di Massari, quell’uso insistito fino quasi all’ossessione del punto fermo capace di creare una frattura all’interno del pensiero, una continua perdita di riferimento tipico di molta cultura occidentale contemporanea. Cancellati questi “chiodi” come li hanno ben definiti alcuni critici, i testi di Libro dei vivi acquistano una spazialità prima negata, cui l’ampliamento del bianco tipografico fra le singole parole o tra spezzoni di frase dona una indicazione di respiro, di riflessione. Sono i vuoti regalati al ragionamento, al dubbio, all’umanità del dire e sottratti al dictat. È questo espediente che traghetta la scrittura di Massari da un dire franto, nervoso a un fluire rallentato e meditativo della parola e del verso. L’effetto raggiunto permette di far uscire fuori con maggiore forza uno dei temi portanti del libro, quella necessità di distaccarsi dalla figura del maestro per farsi figura umana autosufficiente ma non isolata dal mondo. Una presa di conscienza per cui non si deve più «raccogliere il padre» come in Diario del pane, cioè ereditare esperienza, quanto accettare che l’esperienza acquisita e quella ereditata vengano consegnate ad altri. Coscienza del ruolo che porta a un ammissione di duplicità del sentimento in chiave edipica e quindi in un suo sdoppiamento. Si vedono cioè «le scure obbedienze dei padri senza viso/piegati a cancellare tracce di ogni scempio», si constata che il corpo del loro operato «è un secolo chiuso», che ha dato quanto doveva, ma si afferma anche come il destino sia trasmesso di generazione in generazione restando praticamente immutato («che non ho prede ma destini da dividere e tornare tutti alla mia bocca»), circolare. Un fiato che nell’orrore della morte e nella gioia della nascita non è possibile interrompere, mai.

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