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Recensione di Manuele Masini al libro dei vivi


Un libro in costante ossimoro fin dal suo titolo, evidente rimando, lecito supporre, a quello egizio, ma anche a tutta una tradizione trasversale, è questo libro dei vivi di Stefano Massari. Una prova di talento e una capacità compositiva davvero notevoli. Il volume ha una precisa struttura interna che va dalle sezioni (molto spesso denominate non a caso "serie"), all'opposizione tra testo in corsivo e in stampatello, dal citazionismo sempre dialogante, all'intertestualità. Anche l'affettuosa dedica finale costituisce un evidente paratesto integrabile nel discorso/decorso di quest'operetta da leggere tutta in una volta, ma da meditare poi con pazienti riletture. Difficile affrontare i temi che si liberano in un corpo testuale molto lavorato, soprattutto a livello di prosodia, percorso materico di un linguaggio che non offre facili racconti e in cui lo spazio in bianco gioca un ruolo importante e offre una possibilità di lettura aperta dall'ambiguità sintattica e dall'accostamento plurimo di parole. Più interessante sarebbe affrontarlo proprio a partire dal sistema retorico che lo sostiene, operazione non congrua ad una semplice recensione. Vorrei almeno mettere in rilievo una ambigua presenza divina: la parola "dio" apre il testo, in minuscolo, in un frammento che ciclicamente si chiude con le parole "cane dio", ma si tratta di un dio assente, la cui parola è allusa in brevi "intertesti sacri" incatenati in un flusso verbale giocato all'estremo opposto del "comico" dantesco, o della "bestemmia" pasoliniana, perché ormai non ci è dato supporre un percorso di ascesi, ma, semmai, riuscire a scorgere quell'assenza significativa proprio dentro le macerie. L'assenza di dio è più che altro presenza di una società iniqua, presenza di una forza brutale, di una violenza cui si può reagire ancora con il grido, ancora con la ribellione incendiaria ("perché le mie mani sono mani qualunque ma pregano incendio lo pregano ovunque"). O, più frequentemente, con l'alienazione, con un fallimentare abbandono: "chi vive qui senza alcuna croce senza fare storie/ sta lavora mangia tace non chiede altro al mondo atroce/ oltre i muri di santa luce santa pace santo ordine feroce". "L'orrore è un fiume lento", amara, ironica allusione alla canzone di Modugno ("la lontananza sai è come il vento"). Anche lo spazio dell'affettività sembra in parte invaso da una brutalità senza apparenti vie d'uscita. Il poeta morto esposto su una fetta di pane (citato da Christine Koschel) è forse il vero agnello immolato. La risposta, ambiguamente immobilistica e ecumenica ad un tempo, si svolge proprio a cavallo della citazione: "davvero posso solo stare a braccia aperte adesso", ma "domani non posso morire/ domani terrò ancora aperte/ le braccia".

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da mimmo cangiano per libro dei vivi Bravo Stefano, davvero un bel libro, sei andato avanti, (e questo era fondamentale), spero che molti se ne accorgano, quando il libro uscirà, della diversità radicale rispetto a Diario del pane. La carnalità che già era presente è qui molto accentuata, l'impersonalità è quasi scomparsa del tutto, ma anche l'utilizzo dell'Io diminuisce, è un libro del TU, un Tu multiplo impersonato in primo luogo dalla tua famiglia, anche se in questo non c'è nulla di "quotidiano" e non c'è nulla di quotidiano perchè, a mio parere, non c'è nulla di nichilistico. Mi verrebbe quasi da dire che hai scritto un libro al "femminile", ma non nel senso mero di poesia del corpo, nel senso invece che la figura sulla scena (un grande ventre) prende tutto lo spazio, o quasi. Continuo a dire Saba, per quanto assurdo continuo a dirlo: (ma chi mi capirà?) "il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via". Purezza, moralit...
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