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su 'diario del pane'
di Gianfranco Lauretano

Non c'è niente da fare, la cosa che rimane maggiormente impressa di questo libro (quella scia memoriale che come in tutti i libri forti e incisivi s'imprime come un sapore inimitabile) è la sua forma. Eccone subito un esempio: "ora c'è la morte in pace . questo cielo atroce ./c'è mio figlio sotto la collina nera . la bocca piena di falene ./c'è la guerra . e ha ancora fame .". Sono testi che usano l'a-capo, la versificazione, ma aggiungono ad essa una cesura: il punto che cala come una mannaia dentro il verso e aggiunge spazio a quella sintassi già martoriata dalla spezzatura che è la poesia. È un dispositivo stilistico tipico di Stefano Massari, quasi la sua carta d'identità formale. Non so se ne farà uso per sempre: so che lo usa sempre, anche nella sua prosa, che costituisce così un piccolissimo scarto dalla poesia: semplicemente sparisce l'andata a capo, ma non questa ferita continua che l'autore infligge al corpo della sua pagina scritta. Ho tra le mani, ad esempio, il volume fresco di stampa "Poesia a Bologna" curato da Giancarlo Sissa per gli editori Gallo et Calzati; c'è tra gli altri un lungo testo di Massari, molto incisivo, un diario in prosa sulla città e soprattutto su Gil(berto Centi), a cui anche il presente volume di poesie è dedicato. Ecco cosa dice di Bologna: "non è vero . non c'è nessun mistero qui . l'unico mistero di questa città è il suo mito . la sua fama .".

Dunque questo stile è stato una scelta fatta con decisione, con fedeltà, con l'approfondimento continuo dato dall'uso. Massari è un autore metricamente ben riconoscibile, porta una novità, e questo a mio parere per un poeta è un merito, soprattutto oggi. Quanti autori esistono di livello medio, o sia pure medio-alto, ma la cui voce si confonde con quella di altri; ad una lettura anonima dei loro testi non si riconoscerebbero. Temo che tanti della "linea lombarda", per fare un esempio, siano così. Senza voler mancare di rispetto alla sua memoria, è un presentimento che ho di fronte ad una certa parte della produzione persino di Raboni. Massari no. E se questa non è una prova definitiva del valore di una poesia (un autore potrebbe essersi reso riconoscibile in una forma stupida), lo è di una ricerca, di un rovello, di un deragliamento e successivo assestamento ad una voce che potrebbe assomigliare alla propria originale e inimitabile esperienza poetica. E questo è ciò che si richiede ai poeti. Come Massari, i veri poeti sono sempre sperimentali, perché hanno il dovere di trovare e consegnare l'unicità della propria voce. E, tra parentesi, non è vero il contrario: gli sperimentali non sono i veri poeti perché il nucleo fondante della poesia è il suo senso, non il suo mezzo: c'è qualcosa nella forma che rimane "privato", personale, a noi toccano le conseguenze. Come Massari sia arrivato alla sua forma sono affari suoi. Noi ci godiamo quella forma, godiamo soprattutto la diversità della sua voce dalla nostra. Ecco un poeta che non è un clone, diciamo. Non è noi, questa cosa noiosa che è lo specchio di sé.

Cito gli sperimentali per marcare una netta distinzione con un poeta come Massari, che lascia investire la sua forma e tutta la sua poesia non dal metodo ma dalla propria, integrale esperienza di poeta e di uomo. La sua forma suggerisce un'esperienza di costruzione. Non solo il costruire è letteralmente citato più volte nel libro ("i figli che nascono ora . hanno addosso i segni dei ponti distrutti" a p.17; oppure: "fuoco buio tra me e te . tu tra i miei denti . e io a costruirti", "resto solo . davanti al tuo riposo . a labbra aperte ./con le mani che non sanno costruire niente ." alle pagine 41 e 42, eccetera) ma la stessa poesia fa formalmente, essendo quel che è, l'esperienza di costruzione. I versi e le poesie di Massari sono come mattoni e il gesto del poeta li mette uno sopra l'altro. La lettura lascia trapelare la tensione faticosa e fattiva che ha attuato le poesie, anzi la lettura le rifà operosamente.

È una costruzione che nasce da una distruzione precedente, tanto che a volte addirittura si ha l'impressione che Massari voglia creare un calendario in cui il tempo si misura con le guerre che si stanno facendo nel mondo; e la guerra è indubbiamente uno dei temi maggiormente frequentati dal libro. In questo poeta sembra giungere lo stesso sentimento che scoccò nei poeti russi degli anni Venti e Trenta, quando ad un certo punto capirono che era inevitabile essere anche politici. Certo la politica, soprattutto in un anarchico come è Massari, non può che essere sguardo piegato con fermezza e realismo sulla storia, realismo che non rimuove la tenerezza, il dolore e anche la rabbia per il destino dei propri simili, costretti a viver in un tempo in cui la distruzione supera la costruzione e quest'ultima possiede solo armi (apparentemente) deboli, come ad esempio la poesia. Tanti sono gli esempi di compresenza di elementi positivi e negativi, in cui però ciò che è positivo sembra maggiormente in pericolo, come a p.50: "…come una madre/scavata in pieno petto . che moltiplica i giorni in ostaggio . /con la lingua bruciata del testimone . tra cattedrali e ombre . / tra sete e disperazione .". Le due coppie di sostantivi ripetono il confronto positivo/negativo: cattedrali/ombre e sete/disperazione. Ma, soprattutto nella seconda coppia, la faccia positiva non è sostanziale, è una mossa, un gesto, una disposizione a cui siamo chiamati in origine (la madre). E, in fondo, come riesce il potere a renderci prigionieri, se non togliendoci la sete, dissetandoci con bevande vacue, inadeguate al nostro bisogno indissetabile? Per Massari avere sete è positivo, ma non è mai acquisito una volta per tutte: bisogna continuare ad avere sete per giungere alla costruzione delle costruzioni, a quella cattedrale che è il luogo simbolico della grandezza della sete dell'uomo, al di là di una fede che Massari per ora non ha.

Altri dati di questa dicotomia, della "luce sul bordo del pianto" di cui ci narra la poesia: l'inverno e la madre. L'inverno è presente e futuro, una battaglia che già avviene nell'aria anche profetica, a cui occorre quindi prepararsi: "al sangue/intorno rispondo . segno sui muri il prossimo morso . preparo le mani/al prossimo inverno ." È un inverno antropologico, che si mette sulla scia di un presentimento perfettamente contemporaneo e comune ad altri poeti; basti qui richiamare Ferruccio Benzoni, la cui opera è simpatetica con quella di Massari. Un inverno apocalittico, senza segni dal cielo (se non quelli della guerra) ma con molti segni nel corpo e nell'anima. Ma il corpo è anche un tratto d'unione col positivo e con la figura della donna che in tante accezioni sembra portare un segno di pace dentro la guerra onnipresente. Tra le varie possibili, a conclusione di una lettura che, nel caso di questo poeta, non può essere solo formale per l'evidente domanda di una implicazione che le sue parole e finanche i suoi spazi ci mandano, scelgo la madre, con la sua grandezza e innocenza: "dolce . finché puoi . vivimi dentro dolce . che io sopravvivo/e non scrivo più guerra . e non dico più rabbia . ma l'innocenza della madre/che mangia il suo bambino : e guarda il confine . e prega .".

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