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recensione al libro dei vivi di Sebastiano Aglieco


a te che credi ancora al tuo cielo/ chiedo se davvero ami me anche dopo il male questo e quello ancora a venire”, (p.40).
E’ un padre che parla a un padre e gli chiede conto della sua mancanza. Questa mancanza è espressa con un grido o un ragionare a voce alta facendo traboccare con immagini incandescenti o con lo stare a braccia aperte, arreso, l’incredulità del male che abbiamo ricevuto in pegno della nostra esistenza.
E’ l’essenza di questo libro dei vivi, parafrasi umanissima di un antico genere dal valore sapienziale, in cui ai vivi veniva insegnato l’attraversa
mento del regno dei morti attraverso l’utilizzo di regole severissime, in un percorso di sopravvivenza per vincere i mostri che nel sonno della morte attanagliano la coscienza e la divorano. E se lì, nel libro dei morti, dalla parola esattissima e giustamente pesata della formula magica, dipendeva lo stato di una coscienza più alta in un altro mondo, qui la salvezza abita la terra, l’assenza di ombra, la luce del mezzogiorno, la consistenza del fiato e degli umori.
Nessuna riverenza, dunque, al Padre. Piuttosto beste
mmia e urlo. Si tratta di imparare a stare al mondo nel rispetto della Legge e nel compito di arginare gli improvvisi sbocchi di sangue. E’ un giovane padre inesperto del suo arduo compito, che al figlio Francesco dedica parole come queste: “cupa indegna e intera mia ti sia questa mano padre sottovoce incapace con le garze ma feroce sulle labbra sul torace a testa bassa che aspetta tutti i figli che nasceranno in te”, (p.35).
Il padre si fa carico di questa inadeguatezza, indica una cronologia tutta terrestre, che ha le sue radici nelle molecole, nel dono stesso di dare la vita. A differenza di un altro padre, dichiara l’amore del dono e l’enor
me responsabilità di perpetrare l’eterno ciclo della morte e della vita.
Da un dio assente può derivare la costruzione di un’altra riva, di un altro paesaggio nutrito coi piccoli rivi di sangue delle nostre vene; l’idea di un’educazione forte, di un rapporto stretto col mondo attraverso il corpo dei propri figli. Il mondo è costruito sulla mancanza, sull’assenza di una voce che non osa parlare ne
mmeno attraverso il vuoto. Gli altari sono omaggi dovuti al nulla; le preghiere non possono che esprimere la potenza del disastro. La Consolazione, la Resistenza, sono le divinità civili che sostengono, benevole, la nostra mancanza. Il pianto è la conseguenza forzata del passaggio di un dio. Il nostro corpo è un rito di passaggio attraversato e afflitto da forze immani che non comprendiamo; è un monumento franato e tra le nostre rovine si aggirano come mosche fameliche le piccole divinità assetate dell’odore dei nostri sacrifici. Sacrifici offerti per paura, non per amore. Tra le escrescenze della pelle, qualcosa di orribile, simile a un feticcio disumano, si nutre dell’umidore degli anfratti.
Nulla di rassicurante, dunque. Il corpo di questo libro è un paesaggio solcato da forze che sconquassano lungo le rive del sangue, del fluire automatico del dolore. Ma l’assenza di un dio padre evocato, invocato, beste
mmiato, non rappresenta, paradossalmente, la sua negazione. Rende piuttosto evidente l’opera di un costruttore assente; dichiara la necessità del possesso della terra, “il male di non restare innocente e disobbedire costruire una casa con questa pelle di padre e tenere vivo il sangue e sempre oltre i muri le città le stragi le terre in rovina i terrificanti mari”, (p.27).
La terra è il luogo delle nostre radici e della nostra dispersione. E il libro è profonda
mente legato alla terra, alla stabilità costruita su uno strato che non si disfa. Sul corpo della donna, la madre; sulla promessa scandita attraverso il corpo del figlio.
Se un libro costringe all’attacco frontale, corpo a corpo, obbliga a una critica feroce, fatta di confini stretti e di parole pungenti. Ogni rimando alla letteratura, ai libri, è solo una scusa per sospendere un senso che invece ci chiede prepotente
mente di entrare nelle nostre case, nei nostri confini. La ferocia della disperazione può alimentare un nichilismo forzato o piuttosto la costruzione di un orizzonte fatto di piccole cose, di gesti reiterati. Come quando i bambini giocano sulla riva a edificare castelli di sabbia. Essi compiono qualcosa di molto profondo che ha a che fare con la dispersione, con l’essere provvisori, a contatto col flusso dell’acqua che si porta via tutto. Lì, in quella terra di confine, abita l’essenza del nostro stare al mondo: trovare il perché dell’essere vivi; attraverso regole, mantenendo questa attenzione costante verso il nulla, l’infinito oltre. In vedetta. “io non ho prede non ho preghiere è leale ma ho furia e gioia dell’allarme fiato basso e umide le ossa urina sacra boria di restarti contro al vuoto eterno tuo tra fianco e collo invece io so che il sale è grano a grano che luce cresce e calma l’acqua mia sorella che il vento m’inonda di saliva l’urlo e ho fame e vigile l’unghia che mi sta viva e attenta al figlio e al nemico mai lontano che mia madre non ha solo un nome terra la perfetta”, (p.38).
Ho furia e gioia dell’allar
me. Filippo Davoli ha sostenuto che “Libro dei vivi” è un testo profondamente cristiano, e lo è nel senso del significato di una croce non pacificata, tutta splendente del mistero di quel dio che si è fatto carne e della carne ha mostrato, per sempre, il suo strazio infinito. Non c’è ancora la salvezza. Si tratta, storicamente, dell’inizio del cristianesimo, o forse della sua fine. Il messaggio di un Cristo ancora umano nasce su quella croce: dio mio perché mi hai abbandonato.
Questo è ancora il nostro stato: essere abbandonati, ma non nel nulla e nell’assenza, ma in una presenza costante e lontana del padre che ci obbliga a un’affermazione forte, a un atto storica
mente rilevante, dichiarato: essere qui e ora. Perché la Storia ha i suoi limiti nella descrizione degli eventi i quali celebrano la vanità della ripetizione, l’assenza di senso del dolore e del sangue.
Stefano Massari ci suggerisce il ruolo di vedetta silenziosa per arginare il pericolo del mare che porta le navi dei nemici, e per ricostruire i confini. Cerca uno stare, si affida all’acqua delle madri che è ferma: “fer
me le armi degli alberi, la casa ha vene calme ora respiro caldo regolare”, (p.31). Avverte il pericolo imminente, “arrivano lingue scorsoie incessanti da nord pronte le tombe coi nervi bambini pronta la bocca del crollo”, (p.31)
Con coerenza questo linguaggio, nella ricerca di una forma, di un suo punto di equilibrio che non sacrifichi il senso sull’altare della modernità, riconosce la scorza dura dell’origine, dove i sensi sono ancora sporcati dalle i
mmagini e le immagini chiedono alla parola un senso condiviso che le consegni al mondo. Conscio che l’andare a capo non può esser affidato ad alcun automatismo, la poesia/prosa di Stefano Massari cerca una sua autonomia, un suo procedere e costruirsi nel tempo presente del sentire, l’unico vero tempo in cui è data la parusia, la luce abbagliante di una qualche rivelazione. Mi piace vedere questa poesia/prosa solcata da fratture, pause; come un trascorrere che non nega il grumo, il balbettamento, ma piuttosto lo include e lo illumina nel tentativo di dargli senso, di porlo agli uomini come esperienza.
Nel “fare” poesia oggi, siamo costretti a pensarla nel modo tutto particolare di un pensiero che si dà forma nel quotidiano, nel diario dell’accadere. Senza certezze, prese di posizione, automatismi, narcisismi, ma con molto coraggio. Senza passato e senza futuro, la parola è così costretta a segnare le pietre miliari, le soste, i buchi dentro i quali cadiamo. In questo stato di completa fratellanza col mondo, le tappe del nostro ca
mmino ci appaiono in una luce nuova. Si realizza il miracolo di un senso che congiunge gli opposti, e forse percepiamo un pensiero che non è più solo nostro:
mia figlia mi insegna a ballare
il tempo suo incerto contro il mio
esatto ma fermo fa male
la schiena sua fionda
contro quella dei morti
che torna fa male
Qui due tempi si scontrano, quello del padre e quello del figlio, quello dei vivi e quello dei morti. Schiena contro schiena; l’impossibilità, di questo padre, di stare eretto, di reggere il destino del mondo. Un padre in pericolo, perché in questa danza è in ballo la comprensione e la scelta: tempo incerto o tempo esatto ma fermo?
E ancora:
cinque del gennaio dopo
dio fa la guerra a dio
io intanto cado non credo
e devo restare

domani avrò un’ascia
domani non posso morire
domani terrò ancora aperte
le braccia
Urgenza, dunque, di conciliare e conciliarsi, di trovare causa e conseguenza, di tenere ancora aperte le braccia.
perché mio figlio nasceva e io non morivo questa la fede più dura”, (p.45).
Ed ecco un pensiero che non spiega la sua partenza, che si offre, monco, come conseguenza di una causa che evidentemente non ci viene spiegata. Cosa precede quel “perché?”. Qualcuno ci ha parlato e noi non l’abbiamo sentito? Il silenzio non è una terra vuota, ma un confine che alimenta il testamento della speranza.

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