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recensione di Serena Scionti al libro dei vivi


Non è sufficiente abbandonare ciò che è nostro
se non abbandoniamo anche noi stessi (San Girolamo)

Co
me il Libro dei Morti, un tempo unico documento anagrafico - insieme al Registro dei Nati - per attestare la vita, tra fonte battesimale e camposanto, così ora il Libro dei Vivi di Massari, per celebrare chi nasce e chi resiste nel ciclo naturale.
Stefano Massari, già autore di
Diario del pane, nel suo pregevole discorso poetico afferma un'adesione sensuale alla terra, intonando un canto «con labbra secche e fiato di bestia», un canto che nasce dalle viscere telluriche, come il seme che erompe dalla crosta, atavico come l'urlo della creatura che partorisce.
La dichiarazione poetica di Massari è un continuum filosofico, attestato sulla pagina dalla non voluta partizione in versi -normal
mente indicati con gli “a capo”; ogni singolo componimento assume infatti l'umiltà della prosa presentandosi coi versi accostati, separati solo da un doppio spazio: è lo pneuma, il soffio vitale, che percorre le righe, una dopo l'altra, con l'incalzare urgente della vita che trabocca, da padre a figlio, da madre a figlia. Minuscoli, senza punteggiatura, i versi di Massari sono strutturati in sezioni titolate, dove si alterna l'uso della terza e della prima persona, ritagliandosi l'autore degli spazi come io narrante.
Dio ne è il protagonista, padre e figlio al contempo, bambino e assassino, «i
mmane muro refrattario», da lodare ma ancor più da bestemmiare. Dio di lassù, antagonista della creatura di quaggiù che con lui tenta un dialogo e vive «lo strazio di resistergli in piedi sempre soltanto uomo»; a Dio l'uomo non si sottomette, resiste in piedi, sprezzando gli asserviti baciapile, con la schiena piegata al potere religioso: «non credo non prego cedo alla terra».
Dio, anafora dei primi testi, «iddio chiamato amore», sole che splende pure sui maledetti «segretari della guerra»; Dio cui è rivolta, quasi antica invocazione alle Muse, un'accorata preghiera: «chiedo a terra e cielo di essere figlio ancora di essere padre degno». Dio padre, dio madre, ostia unita al caldo vino dell'inverno, pro
messa di continuità della specie. I figli. «Ameranno il loro padre estinto?» Morte e vita accompagnano tutta la silloge numerata, a partire dal primo testo, gilberto centi, in cui, a ricordo dell'amico scomparso, riecheggia ancestrale «il pianto artiglio di mia figlia», pianto che pure innaffierà e germinerà il grano nuovo. Morte e rinascita, dunque, nel «folle volo diagonale dei vivi in coro coi sepolti», per l'uomo immerso nella natura vegetale e animale, con cui condivide un unico slancio vitale.
E' con l'«animale sorella», nelle parole della volpe, che si snoda il dialogo tra l'io del poeta e la volpe, fe
mmina e madre, cocreatrice. Lontani dagli elegiaci andamenti amebei dei lirici latini, preda e predatore si aggrediscono con allitterazioni consonantiche di attacco e di fuga, mediate dall'attesa. La volpe dice la fatica del procreare, che passa fisicamente attraverso il dolore di schiena («la mia è un'attesa tutta di schiena»); insieme curano la tana -più prosaica del nido pascoliano-, vegliano su «la dura cuna che sarà di grano domani», mettendo via «legnetti e filo del mio odore». Anche tra le bestie c'è Dio, «qui sta il dio che non sai chiamare», nella natura che geme, nell'animale muto braccato, che tuttavia, per quanta paura abbia, non uccide il suo simile, come il poeta, che dichiara: «io che ho paura e che so amare», «io madre grande madre terra io come te non so ammazzare». E' l'animalità che salva l'uomo, la sua componente bestiale primigenia.
Mary, protagonista della sezione successiva, parrebbe ancora la stessa volpe, cui viene sciolto un cantico d'amore. Mary, volpe altrice e lucifera, che resiste, che ride «a seno pieno», con lo sguardo «pieno d'ali». Grazie alla figura fe
mmile il poeta scampa alla morte («il tuo sangue mi scampa»), e rinnova la vita («con te vivo fuoco mangio e pace di terra spero e di bestia chiedo il respiro buono di madre»). Sicura di sé, la donna tiene in pugno figli e mondo («che hai resistito a te che hai figliato»), procede dritta, sostenendo l'uomo; Mary-Maria madre, e le figlie femmine, «figlie girasoli nate per dono e per forza». Come già negli stilnovisti, la donna ha uno sguardo illuminante salvifico, ma non è angelicata, la sua carne fa sangue, acqua e sudore.
Della pelle del dio è rivestita la donna, sole che sconfigge la morte urbana, pelle di dio, di padre e di madre, per «costruire una casa»; insieme, donando al mondo dei figli, lui e lei intessono una “corrispondenza d'amorosi sensi fra vivi e morti”, annodando «i fili che fanno andare i vivi e fanno vivi i morti».
Essenziale, per assaporare il denso laborio poetico di Massari, è lo sciogli
mento delle figure archetipiche che rimandano a vita e morte, e all'affanno nel travaso dall'una all'altra, all'acredine dei chiodi (in serie dei chiodi) piantati in corpi fatti di ossa, di pianto, di bocche e gole, di polsi feriti; chiodi battuti per farsi udire dall'«iddio del giorno sordo», che non consola l'orrore, non offre certezze, se non il perpetuarsi della vita.
La morte della volpe introduce al tema del distacco, del bruciare nel sacrificio per una nuova vita, dentro il fuoco del ritorno. Il poeta avoca a sé il diritto di cantare anche l'angoscia, di urlare «furia e gioia», perché non ha preghiere codificate per quel dio, cui lancia il suo canto: «io scompaio semplice del canto in
me»
Da vita e morte, da morte a vita: dopo la morte della volpe, risuona la serie dei vivi, riscatto dei morti. Vivere è procreare e imparare ogni giorno, fare l'amore e credere laicamente nella sacralità dei corpi. L'invito tenace ad oppore resistenza, a continuare nonostante i disincanti, trova in quest'ultima sezione l'affermazione decisiva: il poeta vive perché «sono solo padre e segno resistenza e scempio», perché «ora ho figli miei devo continuare». Se la natura ci ha fatto figliare, non possiamo morire subito: la prole ci attende. «Domani non posso morire / domani terrò ancora aperte / le braccia» «perché mio figlio nasceva e io non morivo questa la fede più dura».
Così si conclude, tra versi franti e secchi, l'asprodolce canto di Stefano Massari, all'insegna del dono, il dono del
libro dei vivi, che i suoi figli riscriveranno per i figli, e i figli dei figli...

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