intervista di Maria Gervasio intorno al diario del pane
apparsa sul quotidiano il Domani (inizio 2004)
I tuoi versi sono molto “forti”, parlano di guerra e di urla, di fango e di terra, di urina e di pioggia, del nascere e del pregare. E poi c’è il pane, spezzato, offerto, ma anche assente fino alla fame: è questo il suo diario, è il diario di questo pane?
Ho usato la parola pane per liberarmela. Per riprenderne possesso. Non solo il pane ma ognuna delle parole che ho scritto nel libro. Morte, guerra, luce, dolore, dio... so bene che oggi pronunciare e scrivere queste parole è rischioso. In poesia è quasi praticamente vietato. Comunque da molti malvisto. Io però avevo bisogno di liberare, di restituirmi queste parole. Ho tentato di oltrepassare ogni sovrastruttura precostituita, per entrare in contatto con l’enorme radice “concreta” di esperienza che queste parole contengono. Nella mia vita e credo nella vita di tutti. Segni e suoni umani prima ancora di ogni cultura. Forse. Tutto questo solo per ascoltare meglio il mondo e la mia vita e per riprodurre questo ascolto prima che potessi contaminarlo con qualsivoglia pensiero, ragionamento, intento poetico o altro. Anche la scelta ‘visiva’ con cui ho disegnato i testi cerca di riprodurre questo stato di ‘ascolto continuo’ . E’ un diario perché il libro è totalmente autobiografico. E’ del pane, perché toccare, mangiare, gettare, negare, fare il pane meglio racconta tutta la speranza e tutta la disperazione dell’esperienza umana. Mia e di tutti.
Diario del pane si apre con una frase in corsivo: non sono nato per obbedire o disobbedire / sono nato per dare e chiedere ascolto. Se questa è una delle chiavi di lettura del tuo libro, come deve essere usata?
Non ci sono chiavi di lettura. O almeno io non le ho fornite. Per rispetto. Non tento mai di indicare una o più letture possibili del mio lavoro costringendo il lettore attraverso chissà quali percorsi interpretativi. Mi sembra una cosa troppo ‘pensata’ e poco ‘sentita’. La vivo addirittura come una vera e propria mancanza di fiducia verso chi accetta di condividere questa grande possibilità di dialogo che è la poesia. Un dialogo fatto soprattutto di ascolto e di partecipazione che, per quanto mi riguarda, deve essere prima responsabilità di chi scrive. Offrirsi con fiducia come possibile interlocutore. Se un poeta non si ‘fida’ del proprio lettore come può nascere un dialogo? Come può pretendere di essere letto o ascoltato? Questo è forse uno dei mali più grandi oggi della nostra poesia. Semmai il problema è rendersi raggiungibili, magari disseminando segni, ritorni, indizi che aiutino il lettore a orientarsi, a capire o almeno a ‘sentire’ anche quanto di più oscuro possa contenere una poesia. Piuttosto quella frase dice la mia vita o almeno quella che desidero e tento di vivere. Come tutti un po’ ci riesco un po’ no.
Il tempo del tuo libro è un tempo non fissato in date, nemmeno in luoghi, ma sembra raccontarci di oggi, di guerre molto vicine, quasi a sentirne il rumore anche da qui. È vero?
Scrivere, lavorare o solo vivere la quotidianità oggi, prescindendo da tutto quello che accade è impossibile. E forse anche inutile. Altro che rumore. Ciò che ci è intorno ci è dentro, inevitabilmente. Capita di vedere gente ‘infastidita’ quando si parla di guerre e altre nefandezze piccole o grandi, presenti o passate. Pazzesco. L’indifferenza e la paura sono i terreni dove meglio allevare i prossimi razzismi. Siamo già a buon punto direi. E’ anche vero però che la gente è stordita e affaticata. Soprattutto è sola e per difendersi fa molte cose, anche perdere o smettere di conservare ‘memoria’. La civiltà dell’informazione globale aiuta. Ci sono poi tanti tipi di guerre. Forse la più devastante è quella silenziosa della sopravvivenza quotidiana della propria coscienza e della propria speranza di fare e di crescere, qui come altrove, con tutte le differenti circostanze naturalmente. Da noi anche le religioni e le arti più frequentate sono sempre più forma formalità e decorazione, non comunicano e non aiutano a difendere e partecipare la propria coscienza individuale in questa tremenda e fasulla civiltà del mercato totale. Viviamo in un paese libero e democratico. Vero almeno per quello che riguarda la libertà di consumo, di investimento, di debito, di spreco, di inquinamento... Organizzarsi dal basso, tentare di costruire spazi di lavoro, di confronto, di dialogo diventa faticosissimo. Il passaggio da consumatore a cittadino è per moltissimi praticamente impossibile se non superando clandestinamente le varie agguerrite barriere burocratiche o costruendo ‘amicizie’ importanti e influenti. Siamo alle solite e siamo da sempre in una condizione di guerra permanente. Poco importa dove avvengano. Ci riguardano. Tutte. Chi non ci crede è semplicemente un cretino oppure è in malafede. Mi viene in mente una frase di Hitler “Ogni generazione dovrebbe sperimentare una guerra”. Suona come una maledetta profezia. Non credo nella pace come non credo nella purezza . Credo nelle cose umane (individuali e collettive) possibili e alla portata di tutti: la concordia, la condivisione, la solidarietà, la fusione fra culture differenti. Fatti umani per i quali tutti noi siamo chiamati a partecipare e a lavorare sodo. I poeti per primi. Che scendano finalmente da quelle ‘altezze’ dove si sono o dove sono stati convenientemente rintanati.
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