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recensione di massimo orgiazzi al libro dei vivi


La poesia è liberazione per Massari e lo si capisce, se ne ha una conferma leggendo questo suo ultimo libro in ordine di tempo, edito da Book nella collana Fuoricasa diretta da Alberto Bertoni. Se Elio Pagliarani proponeva una funzione igienica della poesia sul linguaggio, con il compito di mantenere quest’ultimo efficiente, Stefano Massari non ha propensione per la parola intatta:


con quel che scrive semmai si propone di purificare ad alta temperatura la parola,
per liberarla dal semplicismo unidirezionale del linguaggio d’uso d’oggi, dal riduttivismo televisivo e pubblicitario, dalla «chiusura delle forme che rischia di non concedere più comunicazione autentica».La poesia di Massari allora, questa è la percezione, va a riprendersi la parola nel fondo della fornace, e la riporta incandescente alla pagina, alle labbra di chi legge. Se ne testa la resistenza e la si pone a resistere di fronte al mondo. Non a caso la dedica iniziale del libro è «a chi nasce / e a chi resiste» e introduce un altro tema forte dell’opera, quello della paternità. Nascita e resistenza sono poste sulla stessa linea, in modo da aprire con la paternità una sorta di trinità poetica militante e paritaria la quale si traduce in un’etica che, come scrive Bertoni nella sua post-fazione all’opera, indirizza e sovrasta l’estetica. Trinità che trova la sua ragion d’essere già nelle prime pagine del libro. Sempre Bertoni scrive a ragione che la poesia di Massari è «senza mezzi termini religiosa […] non confessionale, ma quotidianamente rituale». La prima sezione del libro, senza titolo è infatti aperta da una figura di Dio a “personificazione variabile”, letteralmente messa in scena: un Dio che si maschera e “scende” nel linguaggio e nelle lasse a sequenze di versicoli frammentati, soggetti ad enjambement sugli a capo dell’impaginazione. Non c’è più sicurezza né garanzia di umanità in questa visione: «dio assassino mio alto astuto maligno bambino mio sempre sangue sempre e vino in bocca e terra mia dolore mio che resta non cambia e disobbedisce cane dio», (p. 11). E’ una visione che si apre forte come sempre in Massari e sfocia in un espressionismo già proprio a Diario del pane, il quale riporta sempre ad una dimensione tragica che a tratti letteralmente sfonda nell’epica: sempre si ha l’impressione leggendo Massari (specialmente Libro dei vivi), di trovarsi nel dramma, in uno scenario di luce nera, di contrasto forte e di mito/archetipo che padroneggia, interpreta e media la realtà. Il tema del ritorno pervade la poesia, come breve nostos verso una dimensione domestica, di agognata pace, quasi romana antica, repubblicana e come ritorno dei morti, sia sotto una luce di amici e lari, che sotto quella perentoria di un risveglio contro natura («e il folle volo diagonale dei vivi in coro coi sepolti», p. 19; «l’anima iena che torna / e brucia e spera che amici morti domani tornino / a quest’osso di luce», p. 22): si tratta di una rappresentazione primordiale dove si perdono i contorni del mondo conosciuto, ma che contiene i segni scomposti e ridotti ad archetipi dei giorni nostri, una figurazione di “guerra” degli albori che viene fatta nostra, giorno dopo giorno e attrito dopo attrito e che prende forma nella poesia.Non c’è mai pace: non la si trova neanche nei momenti di tranquillità e di “canto” più disteso, lirico, come nella serie per mary, inserto quasi elegiaco di poesia d’amore, dal quale emerge però la cifra del dolore, della separazione cui si cerca antidoto (anche qui) nella purificazione con l’acqua e con il fuoco per un ritorno ad una dimensione solidamente etica: «con te vivo fuoco mangio e pace di terra spero / e di bestia chiedo il respiro buono di madre», (p.22); «aspetto il giorno / che moriremo stanchi e calmi vicini chini a sperare a combattere / come fossimo figli ancora nudi affamati come fossimo nati», (p. 22). Anche in questa dimensione la pace è il suo stesso prezzo: non è mai gratuita, donata, ma semmai contrappeso alla fame, alla fatica e al logoramento, all’usura e alla consunzione. Vengono alla mente gli scritti dei padri del deserto e dei mistici orientali: il fuoco è la parte di Dio che consuma il mondo e lo purifica, nello splendore oscuro di un sole che spesso ricorda la stella morta, il sole nero di de Nerval e che conduce fino al Caproni de Il muro della terra e de Il franco cacciatore. Lo si vede anche nella sezione parole della volpe, dove l’enfasi cade sulla preda, immagine che percorre il libro insieme alla figura inquietante dell’animale, quasi incarnazione pseudo-antropomorfa di ciò che non è umano, di ciò che sta fuori e non ne partecipa. La volpe «mastica il sonno», ma non è qui per il sogno umano, cerca solo da mangiare e si fa immagine del poeta, il quale muore come la volpe nel suo sangue, ma si trasferisce in una dimensione d’osservazione e di male che si subisce, di situazione che si vive e non si controlla e che pure traccia e delinea l’universalità del dolore: «l’umano tuo è di stesso dolore», (p. 16).La resistenza che si manifesta in tutti i gradi del reale sceglie come terreno di confronto il quotidiano ed è resistenza contro “ogni gesto della città bestiale” che nulla di umano conserva ancora: la vita, la filiazione, la famiglia, persino la costruzione di una casa, che è «pelle di padre», pellicola protettiva, sono atti di resistenza verso «la città [che] parla una lingua senza morte ai crani in fila […] stamattina che la città tiene ferma luce e in piedi la continua morte», (p.26) e verso l’odierna società, che si rispecchia in una visione di schiavi di divinità idolatriche: «mi volto ai padroni penzola dall’ano un dio feticcio disumano», (p. 35).In morte della volpe, però, la dimensione della non umanità sembra fondersi con quella umana, nuovamente in un ritorno, quello alla «grande madre la perfetta», raffigurazione della terra come bocca che tutto accoglie, in quella che già in Diario del pane era per Massari la centrale sincronia tra corpo e terra, non come stato sciamanico, né visionario, ma come stato sostanzialmente umano, in cui l’io e il tu si confondono insieme alle visioni di nulla e tutto: «io scompaio semplice del canto in me nel sempre e nel tutto come è giusto io universo intero tu demente tremolante io tua preda tu mio servante», (p.38). Ne è conferma e continuità il fatto che nella sezione serie dei vivi sia riportata la via che chiude la raccolta, con l’intenzione di apprendere ed imparare quanto ci sia di utile a non cedere e soccombere a tutto quel che circoscrive ed opprime le proprie speranze di onesta e dignitosa sopravvivenza: «credo nel tuo corpo e nel mio ora cava sorella ogni giorno che ti asciugo respiro e riposo e tengo ogni tuo gesto segreto e fedele nel mio piegato a tutto il tuo male», (p. 39). L’apprendimento però è del «male vero», un’imparare dalla morte e dalla terra, a ciò cui di non meglio intelligibile si rivolge il poeta per pregare e chiedere se egli sia solo «padre e scempio resistenza e segno pazienza e denti maceria dimmi ce la faccio a restare ancora non mentire ora ho figli miei devo continuare», (p. 40). Si tratta insomma di una mancanza di fede, ben dichiarata nei due brani finali che recuperano l’a capo tradizionale, a costituire la resistenza e l’attrito, ai quali il poeta si adatta costruendo un’accettazione nella quale trovare «la fede più dura», un’apertura di lotta e contrasto (in cui «dio fa la guerra a dio») sulla quale costruire paradossalmente la propria pace: «io intanto cado non credo / e devo restare // domani avrò un’ascia / domani non posso morire / domani terrò ancora aperte / le braccia», (p.44).Abbandonato quasi definitivamente il verso orizzontale lineare con gli a capo; abbandonati anche i punti che in Diario del pane, isolati e perentori, prendevano le sembianze di chiodi (non a caso, forse anche, una delle sezioni di Libro dei vivi si chiama serie dei chiodi), ma conservando i versicoli delimitati da spazi lunghi a valorizzare la forza della sentenza e l’impressione a caldo nell’avanzare cronologico della poesia, Massari ricrea un tempo marcato, anzi “marchiato”, scandito da cadenze metriche multiple e variabili in cui si inseriscono perentorie rime e omofonie (nelle opere precedenti decisamente più rare) ottenendo un elevato grado di integrazione tra pathos e ritmo, optimum di una forma metrica che convince e a tratti incanta per la grazia (ne siano esempi le composizioni a pagina 18, 19 e 28, la cui lettura è consigliata senza mezzi termini). La mancanza di maiuscole in tutto il testo crea una sorta di codice continuo, una sorta di nastro perforato che passa informazione (nel senso buono: emozione, piacere estetico e summa etica) in unità discrete, macroscandite dalle lasse in continua riproposizione. La poesia di Massari, che sembra davvero poco riferirsi a modelli e moduli italiani contemporanei, si configura come “massimo della contaminazione linguistica” e se ne ricava l’impressione che i suoi versi quasi cerchino la massa critica per l’ignizione di quel fuoco dal quale estrae, attraverso «il pianto immenso e ovunque», una parola che si rende tra le più forti e indipendenti nel panorama poetico contemporaneo.

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