No, franca
Vi è un gioco ambiguo che di volta in volta si finge univoco, la visione di un mondo in interrotto disfacime nto si salda allo sguardo di chi scrive su di un corpo che dorme , nella sensazione di infinita dolcezza davanti al vulnerabile; vi è un colore dominante nel libro, è il bianco, bianco scorrere ininterrotto del tempo, sia esso storico o astorico, bianca essenzialità, colore del silenzio, film muto con fruscio in sottofondo, lenzuolo sul quale affiorano a tratti i segni neri della penna e dell’uomo e sono le poesie.
Ciò che sembra impossibile è la resa, vi si contrappone la visione di un’umanità innocente in quanto più vicina al suo stato “animale”, di cui i bambini diventano la rappresentazione più evidente, e ringhiano, come la terra, e urlano in un disperato anelito alla resistenza, ogni parola è crudele ogni allitterazione si è trasformata nel ruggito di chi ha visto e non può tacere, e si difende allora nel recupero di quelli che sono i gesti primordiali del nostro essere uomini oppure nella poesia stessa, (che forse è uno di questi gesti) o ancora nell’intraprendere un fondame ntale dialogo coi morti, i quali lungi dall’avere raggiunto la proverbiale serenità sono quanto mai pronti all’accusa e a un silenzio che sa di attesa prima della necessaria punizione, prima dell’annientame nto da cui l’occidente non potrà salvarsi, e solo col quale, forse, potrà pagare il suo debito altissimo.
Ma vi è un altro diario del pane, fatto di canto, fedeltà, e di “scuola della gioia”, una visione materna, un battezzo che cerca un gesto di pace nella visione di un interno in penombra, dove l’impossibilità all’azione non si carica più della nostra individualistica impotenza, ma solo resta stupito e spogliato dinnanzi alla dolcezza suprema, qualsiasi cosa per noi questa dolcezza sia.