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recensione a diario del pane
di marco ercolani

Un poeta inconciliato

A quale definizione risponde un libro anomalo e suggestivo come Diario del pane di Stefano Massari (Raffaelli, 2003)? A nessuna che lo catturi e descriva interamente. Il libro inizia con questa poesia scritta in corsivo al centro della prima pagina: “non sono nato per obbedire o disobbedire / sono nato per dare o chiedere ascolto”. Così l’autore ribadisce la sua posizione da poeta inconciliato. I suoi versi - che anche tipograficamente non si mostrano come versi tradizionali ma come righe dove si formano immagini e metafore - assomigliano a stenogrammi lirici di una voce ininterrotta, risentita, accusatrice. O piuttosto, a secche partiture per voce sola. Ma non si tratta di una voce conciliante, autobiografica, minimale. La voce di Massari è nuda, spoglia: è il frammento di un noi - sotterrato, sommerso, oppresso – di un canto generale che nutre un io lacerato e sonnambulo, ancora capace di sillabare parole semplici e rischiose come “pane”, “guerra”, “massacro”, “preghiera”, “cristo”, “fame”. Si pensi con attenzione all’uso, tutto personale, della punteggiatura. Né virgole né punti e virgola né maiuscole: solo un punto - campito nella riga (nel verso) con estrema evidenza - a sottolineare quelli che sono gli accenti o le pause del canto. Considerando la natura epica di questa poesia, come osserva Lucetta Frisa, i punti sembrano “rulli di tamburo” all’interno di un recitativo corale, di una marcia di oppressi che ancora levano alta la loro voce.

Quali poeti evoca la lettura di Massari? La loro giovinezza febbrile e surreale mi ricorda la giovane poesia espressionista di Alfred Lichtenstein, il martellare fonico di Vladimir Majakowskij, le rituali preghiere di Nelly Sachs. Ma, ancora, Inganno di luna, del tedesco Wolfgang Borchert, morto ventiseienne nel 1947: “Una rete da pescatore? Forse una ragnatela? / No, è ben altro, e le ciglia mi tremano / quando alzo lassù lo sguardo alla finestra: / sono sbarre”.

Come scrive Alberto Bertoni nella sua attenta postfazione al volume: “Dallo sbriciolamento dei sintagmi si trascorre fino all’icasticità assoluta della visione finale. Non ci sono cascami ermetici, nella sua scrittura, semmai un controllo ritmato e organizzato del delirio argomentativo - tra sogno, dormiveglia e sillabazione allucinata del mondo - che gli viene dalla lezione, assai alta, del De Angelis migliore”. Queste osservazioni sottolineano l’ellittica precisione di questa sillabazione che, in modo fulmineo, traversa tempi e spazi diversi per riaffermare una condizione storica di resistenza umana al massacro, una fiducia fondamentale nella voce dell’individuo, nel suo essere persona intera gettata in quello che Saba chiamava “il flusso caldo della vita”. Giancarlo Sissa ricorda come, per la poesia di Massari, “il rischio della facilità si risolve in una spietata chiarezza, quasi epigrammatica, e più spesso fotografica”, a testimoniare la natura da filmaker del poeta. Anche un semplice paesaggio marino può trasformarsi in un luogo minaccioso dove “urto”, “crollo”, “battesimo”, rimandano alla natura visionaria e sentenziosa di una poesia in lotta permanente contro le iniquità della storia, una “poesia in stato di rabbia” che incanala la collera non in frammenti informi ed evanescenti ma in brandelli sintattici costruiti con precisa violenza, nitida allegoria della nostra condizione umana di imminente distruzione. “Mare tirreno . alto . e di sangue stanco . in un battesimo spero . / o anche solo in un segno calmo . ma resta l’urto da questa terra . / che mastica e urla . al principio del crollo”.

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