Stefano Massari,
MACCHINE DEL DILUVIO, MC edizioni 2022
di Sebastiano Aglieco
https://miolive.wordpress.com/2022/04/10/stefano-massari-impareremo-questo-coraggio/
Esce, nella bella collana diretta da Pasquale Di Palmo, il nuovo libro di Stefano Massari. Sono poesie finalmente rilasciate dopo anni di silenzio, indiscutibilmente scritte nello stile riconoscibilissimo di Stefano Massari, e cioè in forma di “pezzi”, “torsi” immaginati nel contrasto tra luce e ombra, tanto che vengono subito alla mente corrispondenze fittissime con la pittura e la scultura.
Probabilmente, aggiornando il campo delle citazioni, bisognerebbe indicare certe immagini fotografiche dei corpi di Viviana Nicodemo, o di quelli in naftalina fotografati da Simone Casetta, nell’album fotografico “Fanno finta di non esserci”. Non per ultimo gli esiti di alcuni recenti artisti come Roberto Ferri o Emanuele De Santi.
Parrebbe, inoltre, a una prima superficiale lettura, poter corrispondere questa poesia con la scrittura “fuori norma” documentata da Marco Ercolani nel suo libro “Galassie parallele”; non, certo, nel suo precipitare definitivo in segni ormai semanticamente esplosi e autonomi, ma prima del diluvio, prima della fine. Sono prova di questa resistenza due suggerimenti di lettura: il primo riguarda il ritmo percussivo dei versi, segnale forte di vita che batte, sempre in procinto di esibirsi nell’urlo finale, tra piccole pause bianche aggrappanti, perdita improvvisa del discorso, subitanea ripresa del senso; il secondo l’indicazione di un progetto più largo in cui i frammenti, nel loro insieme, contribuiscono a sostenere l’idea di una vita resiliente, dando senso ai corpi dei padri, delle madri, dei figli.
Poesia come atto di resistenza, dunque, luogo sottratto all’ingombere, alla ritualità del male e del dolore. La tragedia dell’esistere è “anestetizzata” dal progetto di un corpo duale (madre e padre) che genera altri corpi (i figli), ai quali è possibile consegnare un gesto di Bene, un Desiderio di essere altri.
E’ un messaggio che Massari già espone nell’antefatto: “protegge (re) i compleanni dei figli / con le mani di padre che fumano e preparano / la resa”.
I padri sono portatori di storia e di memoria. Sanno della morte e così temono la morte dei figli; il loro amore si esprime nel gesto animale del riconoscimento istintuale, poco mediato dalla parola, dal sapore dolciastro del bacio. Più che altro sono coscienti che l’amore è un gesto sperperato, in balia della bocca famelica del mondo e dei suoi aguzzini. Dice Massari: “io non ho più fede in niente / ma non posso”.
La poesia, dunque, è lavoro in grado di sottrarre il senso del proprio agire allo scandalo di tutti i cristi appesi in croce e al canto delle iene. Si scrive non perché la scrittura abbia potere di salvazione (la parola non salva, talvolta sogna – Bonnefoy) ma perché la Voce che approda nella bocca col fracasso di un aereo da guerra, si autopronuncia, si autoproclama.
[raccontare non è facile, le mie rinunce – le piango / ancora – io vivo il ricordo – la morte – il male].
Nella prima sezione del libro “I primi dodici morti”, leggiamo, appunto di un raccontare non facile. L’ ”antefatto” qui si sviluppa nella necessità di dare voce ai corpi “famigliari”, entità, cioè, che nel tempo indicato e stabilito (1969-1996) – raccontano della propria morte.
Si tratta di un tempo ribaltato, quasi palindromo, e fatico, non so se in relazione con le “parole trascritte durante una seduta spiritica” che aprono il libro. In questo testo l’entità che si esprime parla di un raccontare non facile, di un vivere il ricordo, la morte, il male. Di un non avere mai odiato il fratello, di un dimenticare il fratello…di un ribaltamento, appunto, di una consegna del dolore: “soffri tu ora fratello – rimordi tu – lasciami rabbia”.
Il dolore è riconsegnato al Tempo, entità che ha il compito di raccogliere e conservare il racconto delle proprie morti e di quelle altrui. Ma non di salvarle.
poi si spezzò la croce la città il mio nome
per sempre sdraiato sul fianco di una strada
qualunque con la mano ancora bagnata
del suo labbro inferiore e l’urlo del mondo
venuto a bruciare proprio nel centro
dei nostri anni perfetti perché mio
soltanto mio era il compito di morire per tutti
e invece restai a scegliermi il dio tra i nemici
a venire e il buio come compagno di banco
E’ evidente la chiave cristologica di questi corpi che raccontano il proprio martirio. La creatura non può “sfuggire / al buon dio dei massacri”. La poesia si fa varco tra le macerie dell’essere, prova a scavare sensi, a consacrare il sangue degli innocenti. Persino la bestemmia è gesto disperato di preghiera: “maledetto il tuo cristo dimmi perché”…
Il padre si pone nel progetto mentale, nel rosario quotidiano del compito: superare il gesto della creazione inteso come colpa del dare il dolore, del perpetrare gli abusi della Storia: [mio figlio mi scrive sul viso salva e amore / poi ride allora per un attimo io rifiuto la colpa / e mi unisco ai padri impauriti che sorvegliano / la schiena del mondo”.
Nella sezione successiva “Figure del diluvio”, Massari sembra sviluppare alla lettera l’indicazione di Franco Fortini: “Ma tu non lo devi rappresentare. / Non devi forzare nessuna parola. / Tutto è da contemplare. / Tutto è da fare”. Procede, quindi, per testi che si sgranano in forma di contemplazioni drammatiche abbassando le accuse contro il mondo e riesumando, piuttosto, archetipi abissali, come certe apparizioni animalesche di Max Ernst.
Alcuni incipit: la spalancata violata; la santa incoronata; più vecchio della stessa sua terra; il precursore vive per sempre; l’orfana con molti seni e cuori; il più amato tra noi; la nuda impaurita trafitta; il felice nella fede praticante; il migrato proibito; l’arca vagina incinta… Sono ritratti di figure che non possono avere nome, ma il Nome. Riassunti, evocati e distanti, affiorano dallo sfondo buio mostrandosi intonsi nella loro nudità animalesca.
Non figure umane, quindi, ma che sono state umane, ora rapprese nel loro senso ultimo, riassuntivo, tragicamente eterno.
l’insanguinata porta i fiori e i fiori
sono promesse di genitori pugni di figli
che si rincorrono con le bestie porte chiuse
battute a sangue alberi ignari senza rancore
I due testi, quello iniziale e quello finale, che chiosano la sezione, ci dicono di un affresco esploso ove campeggiano gli oggetti sconsacrati ai riti sociali, gli avanzi delle civiltà, “le città i confini il dolore / i cani dell’alba che al risveglio / divoreranno tutto / anche la pietà”. E infine “ la morte che gioca e vola e deve mangiare”, mai prigioniera della parola e delle nostre logiche.
A ben vedere, dunque, queste figure del diluvio non emergono da uno sfondo nero, ma dal paesaggio apocalittico che abbiamo promesso ai posteri. Siamo noi stessi, senza saperlo, queste figure del diluvio. Non preparano, tuttavia, la resa, perché la resa è già avvenuta – ed è uno di quei casi, questi, in cui la poesia misura la sua forza nell’intuizione della profezia -; preparano, piuttosto, le parole della materia che non ha voce, delle immagini in sé che parlano con la lingua nuova che ogni cosa rigenera.
Se capisco bene: ciò che rimane di noi, degli altri, non può rinunciare a un suo dire senza parola – e queste macchine, dunque, si pongono come crogiuolo, fucina, possibilità della rigenerazione attraverso il corpo duale del padre e della madre – .
Ancora bisogna partire dalle citazioni: “il sole, che vede tutto, mi capisce (Luis Garcìa Montero)”; “la vita, fondamentalmente, è acciaio su pietra (C.G.Jung)”.
E’ la materia stessa che parla; come la sostanza di una musica senza note, così la poesia dichiara il suo essere prima, prima della parola: – dico le parole costrette nella gabbia toracica della forma sociale – . Le brevi terzine della sezione, a volte con un a capo, dichiarano l’enumerazione come modalità semplice dell’inizio – e la parola fu – sembrano descrivere un paesaggio dal quale improvvisamente, dopo minuti o dopo milioni di anni, qualcosa potrebbe riformarsi per germinazione:
i succhi bassi dei cieli uguali che dimenticano
il movimento di tornare l’unione di fiorire
gli uccelli fissi idioti sui campanili santi e vuoti
Queste nuove macchine, ed era un’intuizione incipitaria ma tutta da verificare prima della lettura di queste poesie, mi riportano al lavoro di un’artista scienziato dei nostri giorni, Theo Jansen, costruttore di giganteschi scheletri di plastica che si muovono sulla spiaggia mossi solo dal vento, grazie a delle vele polimeriche. Esseri, cioè, che hanno superato tutto il dolore, tutte le scorie delle emozioni e si sono fatte vita nuova, solo vita che contempla.
belli erano i sognati i loro carnevali colori
il vento potente vedetta e abbraccio la grandine
furiosa portagioia unico lampo liberato di vetro
in vetro come non fossimo mai stati vivi ingrati
impauriti
Al termine del libro, Stefano Massari ritorna indietro, descrivendo il desiderio sensuale del suo corpo duale: maschio e femmina abitano il bozzolo intimissimo che li protegge dal mondo, preservando il compito del dare vita, dalla semplificazione e massificazione del discorso. Come a volerci dire che il vero corpo è quello intimo, adombrato, mai totalmente del mondo, mai totalmente esposto al lubridio della guerra e del consenso. Qui entriamo nella stanza nuziale in punta di piedi.
avremo i nostri figli legioni
i nostri fiori sentinelle
le vene disarmate le gambe unite
come latitudini avverate le mani
impareranno a riposare il pane
lo faremo insieme
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