di Gabriele Marturano
«la bambina con la morte con l’acciaio / della buona sorte conficcato nello sterno / con una mano verso l’inverno e lo sguardo / calmo dall’altro lato di ogni nostra colpa / di ogni nostro corpo nato e perduto / senza ritorno»
La poesia di Stefano Massari è un fluido congegno, non a caso il titolo della raccolta è Macchine del diluvio (MC edizioni, 2022). L’aver adoperato già in apertura la carta dell’ossimoro è sintomatico della muscolarità poetica che innerva l’opera, la quale si evince al meglio solo a partire dall’ascolto diretto della voce del poeta, che lungo l’asse del verso semina respiri, spaziando il dettato e lasciando che in questo mulinello di vuoto la vocalità del testo s’interrompa, generando quel verso franto ma non fratturato, anzi, scandito con una dolcezza salmodiante, che è la cifra ritmica di tutta la silloge.
Massari è riuscito in uno dei compiti metrici più difficili: ha creato una partitura "oggettiva" per la lettura, tramite lo spazio marcato intraversale, permettendo così di far combaciare i due respiri, del lettore e dell’autore, originando una sorta di possessione vocalica, una sovrapposizione delle due voci che facendosi una si addentra nella galleria dei primi dodici morti, attraversata la quale si incontrano le figure del diluvio e, sul finire di quella che concettualmente possiamo indicare come la prima parte dell’opera, le eponime macchine del diluvio.
Queste sono le prime tre sezioni del libro che danno l’impressione di essere una trinità, una molteplicità dell’uno, o meglio, dell’unico argomento che martella i versi: la morte. La quale si presenta screziata, capace di assumere per sé gli attributi dei corpi di cui si serve, per questa ragione ora ha le «unghie rotte / e di cera», e ora invece si mostra nell’atto di preparare «l’aborto / con la stessa sostanza del padre»; ma essa si sente pulsare anche laddove non affiora esplicitamente, per esempio nella «bambina che piove senza pace».
Le immagini sono dunque un fluido mosaico che si giustappone e compenetra ma solo per un lato, l'altro resta esposto e sfalsato, come se appartenesse a un diverso disegno. Sono un quarzo spaccato a metà, con una radice del colore innestata nella pietra e l'altra, cangiante, esposta alla luce.
Quello di Stefano Massari è un libro sisifeo, dove il poeta sopporta il peso della parola impastata col grumo di dolore che non è solo il suo, ma è universalmente umano, perché fatto delle «giuste confessioni delle carni»; e la spinge al limite, fin su quella cima che è la poesia, che si presenta come la «tregua armonica di cenere».
Quel macigno è fatto di vita, intesa anche nel suo essere la «morte che […] deve mangiare», il «torace / dei popoli e le loro belve», «il silenzio chimico alla fine dei chiodi».
Dall'inventario di citazioni, è possibile notare una caratteristica dello stile: la presenza di un nome comune («la tregua», «il silenzio») cui segue il rintocco dell'aggettivo che amplifica l’onda del significato andando a creare uno iato, tra l'attesa normale e ciò che poeticamente accade, dando vita così a una novità verbale che è novità d'immagine, vivificata da una materica mostruosità (nel senso etimologico del termine che va a indicare ciò che è così inedito da apparire terrificante o sublime).
I versi hanno un procedere zigzagante tra i significanti e i significati, che si presentano nella forma di segni scomposti, deformi, mostruosi (nel senso di mai visti, nuovi); è un libro pieno di gole, inghiottitoi, spuntoni, quali sono ad esempio quei termini che ritornano assiduamente al punto da rendersi degli ultra-simboli: i polsi, le mani, il lato destro e sinistro, le impiccagioni, gli alveari.
A titolo esemplificativo di quanto appena detto, valgano i seguenti versi: «il lieto esecutore ha tre poteri appesi / alla mano destra», e nella poesia successiva, «la testimone ha un buco sulla fronte / labbra enormi che sussurrano tutte le nenie / del mondo la metà destra del suo viso / ci accusa tutti».
Fin qui si è indugiato sulla parte più corposa dell’opera, le prime tre sezioni. Ma ne è presente una quarta, che chiude il viaggio e si intitola diario nostro, introducendoci così in una dimensione intima che si apre con una concatenazione di brevi testi numerati, cellule di luce che strutturano i primi tessuti di questi ultimi centimetri del corpo poetico che Massari snuda al lettore.
Ma siccome quest’opera è fuoco greco, la fiamma del buio incendia anche questi versi: «chiunque tu sia perduto dio incompiuta bestia», apre la sezione, ma all’interno del labirinto di questi «anni alveari» appare inaspettatamente il «colore di gessetti per saltare la felicità». Ecco, il cambio di rotta conclusivo, che con disturbante immagine, ma, crediamo, affine alla cruda sincerità dei versi, potremmo definire un tumore di luce che corrode l’organicità della morte.
Dunque, finalmente, «insieme liberiamo / i troppi nomi dati alla morte» e dopo aver percorso le falde che scavano l’instabilità della vita, la forza mitica delle immagini sin qui viste si trasforma in elegiaca tenerezza, e anziché uscire a rimirar le stelle, più umanamente gli ultimi versi entrano nell'intimità domestica di quel “tu” che fonda il “noi” e che vede il poeta posare «le labbra sugli occhi / mentre dormi faccio piano».
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