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Su MACCHINE DEL DILUVIO

di Stefano Massari


Meccaniche della ricomposizione

di Massimo Barbaro




Ci sono biografie che si incrociano e biografie che si intrecciano. Vite. Ecco, la parola tanto maledetta, al punto da dimenticarne il perché, tanto da chiedersi se non si sia trattato di un errore, tragicomico e equivoco, mescolato con la carta e l’inchiostro, che conserva ancora qualcosa di dicibile. 
Stefano Massari mi manda il suo Macchine del diluvio (Milano, MC Edizioni), preceduto da una telefonata in cui la stessa voce amica, la stessa forza, mi parlano di ritorni (da chissà dove – nessuno può dire, veramente, dov’è stato nelle sue assenze, dal momento che siamo, sempre, maledettamente presenti a noi stessi…), di progetti… Fa un certo effetto, nello scorrere la biografia del risvolto di terza, ritrovarsi non solo nei libri ma anche nelle imprese di un poeta e di quello sparuto manipolo di hommes de lettres che ha segnato anche la mia. Le opere. D’altra parte, la vita è fatta per essere vissuta. Trapassata, da parte a parte. E quell’ultimo passo. La morte si sconta vivendo? Anche la vita. La parola bandita, nei suoi ritorni.
Nel libro di Stefano non c’è traccia di morte, semmai di morti. Nel loro essere, e rimanere, corpi. 
Siamo corpi che sentono, corpi che pensano. Anzi, è il corpo che pensa, e la prima cosa che pensa è il corpo stesso. Il corpo pensa il corpo, e su questo pensiero primordiale, necessario al pensiero stesso per conoscersi, e da lì andare oltre, si sono innestate strutture di pensiero, sovrastrutture, sovrapensieri, alcuni dei  quali hanno avuto effetti mortali e mortiferi sul corpo e sulla vita. Sovrapensieri, pensieri che sarebbe stato meglio non pensare, mai. La morte è uno di quei pensieri dell’inizio; la sua paura è invece un sovrapensiero, un pensiero che ha preso una direzione sbagliata, contraria al corpo e alla vita, quando avrebbe potuto e potrebbe essere benissimo rivolto a loro favore, come richiamo e coscienza lucidamente estrema. Invece, quando il corpo pensa contro il corpo (idealismo filosofico, pensiero religioso…), il corpo distoglie con sdegno il pensiero dal corpo e si aprono le distese della morte… 
Succede quindi che il corpo dell’altro, invece di essere l’ancoraggio del proprio pensiero, invece di essere, come invece è, costitutivo di ciò che siamo, si oggettifica e diventa oggetto di consumo e distruzione. In uno stato di natura che già contempla il pensiero e l’esperienza della morte, per sovrappiù, svincolati dalla necessità, continuiamo a praticare e a causare la mortificazione dei corpi nel pensiero e la loro morte nella cruda realtà. 
I corpi della morte non devono essere visti. I corpi pixelati. La morte viene  allontanata dalla vista dei bambini e dal pensiero degli adulti, lì dove potrebbe, invece, al limite, essere di somma utilità, esperienza (pallida) del limite, monito della brevità e delle vere cose che contano. La paura della morte invece no, utilissima al potere di sempre a dominare morti che camminano e che hanno rimosso l’idea della morte. 
Allontanato il pensiero che lo nega, o più concretamente nelle sue pause e nei momenti in cui il pensiero si assopisce, il corpo può gioire. Felicità momentanea. Gioia nel silenzio dei corpi. Laddove l’inganno evolutivo (il corpo che guarda al di là del proprio corpo, oltre l’individuo e verso l’oltre della specie) non trova di meglio che un altro pensiero, un’illusione istantanea di eternità – altra parola innominabile. 
Forse non è un caso se il nuovo libro di Massari viene letto in tempi di guerra, la guerra uscita dalla metafora idiota e spropositata e rientrata, se mai ne era uscita, nel mondo del reale. Frammentario quanto si vuole e frutto dei ritorni di cui si diceva, scrittura forte, potentissima, immaginifica, impervia, recante una nuova cifra grafica (l’abbandono dello “spazio-punto-spazio” e il ricorso a una spaziatura lunga interna al verso usata come iato che gli conferisce densità e spessore – quest’ultima mi è molto familiare), il nuovo libro di Stefano è un percorso intorno al corpo e del corpo. I primi 12 morti sono corpi insepolti, come un tempo sui cigli delle strade, indipendenti dalla loro decomposizione e scomposizione. Il corpo identico, modello, schema, nella morte assume diversità – noi vorremmo alienità, ma invece… – proprio per via delle diverse forme della morte, come se i corpi fossero materia che la morte plasma. Dodici. I primi. Sono quelli dopo i quali si è smesso di contarli (siano maledetti coloro che volgono il capo altrove da un corpo morto, maledetti quelli che smettono di contare i morti): 

poi bastò tacere e aspettare   come aspetta / la terra   che non ha il pensiero di noi / così il padre del padre   si staccava avanzi marci e neri dal corpo    che neanche parlava / e pure spingeva i denti in avanti   per riuscire / almeno a ringhiare   i medici lo tagliarono tanto / che non ne rimase nemmeno il ricordo […]. 

Poi il diluvio. Qui non capisco se il diluvio marca un tempo lungo – la cesura di Stefano – o anche, come evocazione vorrebbe, la tabula rasa da cui ripartire. Ma le Figure del diluvio si stagliano come sculture, come se i corpi dei morti, ormai privi di tutto se non della loro morte, se non di quel ecco cosa mi hanno fatto, ora si ergono come artefatti, opere di un’arte – umana? – che torna non senza timidezza alla luce, che torna a voler dire. Le opere si aprono verso di noi, ricordano, rappresentano, ammoniscono: 

pura calva e solenne / ha negli occhi   l’intenzione di essere madre / ha due bocche opposte che apre   una nell’ombra / che vomita collera   l’altra enorme   che annuncia / la peste   che presto sarà di noi. 

Le Macchine del diluvio sono anch’esse sculture, ma sculture d’aria e di sogno, di una plasticità tutta ancora da inventare (e per la quale riconosco ancora, pur nella mia rinnegazione, un valore anche pratico alla poesia). Macchine per le quali è sostanziale il movimento, anche se fossero destinate a rimanere lì come sculture da giardini, a ripeterlo sotto le intemperie e nel tempo: 

la rotazione delle torri   le nervature locuste / cresciute unanimi e insonni   le cuciture dei cementi / e degli allarmi   le giuste confessioni delle carni. 

Le macchine stanno lì a dirci che noi siamo corpi (lo abbiamo dimenticato) mossi da quel bios. Chiamiamolo così. In mancanza di meglio. Chiamiamolo con quanto troviamo nell’ultima sezione del libro, Diario nostro, dove il bios, se ha un senso, lo ha in quanto viene scritto, forza che muove le macchine. Energia? No, quella è la fonte, sostanza è il meccanismo: ingegno più arte e, purtroppo, heideggeriamente, tecnica. Nel diario è come se (e in questo «come se» pago tributo al mio antico scetticismo) i corpi rinascano, come se l’eros, ma preferirei dire piuttosto gli atti d’amore, fungessero da innesco che permette il movimento – a questo punto è il caso di dire: funzionamento – dei corpi-macchine. Non solo (e qui il pessimismo antico pare scivolarmi tra le dita): una vera e propria ricomposizione della vita: 

[…] e qui davanti alla città / riunita intera nelle mani nostre  che fanno piano / ancora   che imparano a cercarsi   sapendo / che tutto è raggiunto  che tutto comincia / adesso

impareremo questo coraggio / di obbedirci   di curarci

guarda   ti vengo dentro   e riesco a pregare / le cose vive   che non sanno obbedire o disobbedire / ora che con la schiena mi cerchi   mi spingi libera / da tutto   anche da me   e senza più paura e destino / mi stringi   tutto il bene e il male del mondo   ora / che solo in ogni tuo giorno   conosco la parola del mio. 

Possiamo fidarci di qualcosa che sappiamo coesistere, consistere solo nell’istante? Di un attimo di gioia? Può essere di più? Ovviamente no. Sto passando l’ultima parte della mia vita (pardon…) a teorizzare qualcosa che vada oltre. Non qualcosa che resti: niente resta, solo cadaveri, figure, macchine e parole, e sono grato a Stefano Massari per averci dato una nuova fenomenologia della decomposizione e, come lui mi scrive, una «fede umana» (attenzione: non nell’uomo – non è la stessa cosa). O, come più banalmente direi io (ma senza aderirvi prima di capire bene), una speranza.
Le macchine non hanno niente di tutto ciò. Ma noi siamo macchine. Costruiamo macchine, e miti dell’Arca.
Ho più fiducia negli animali. Che non costruiscono arche ma saranno gli unici (o purtroppo, gli ultimi) a sopravvivere a ogni nostro diluvio. Perché sono gli unici ad avere, forse non solo nel nome, un’anima. 


Stefano Massari, Macchine del diluvio, Milano, MC Edizioni, 2022, € 14

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