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Serie del Ritorno recensione di Giacomo Cerrai (da imperfetta ellisse)

Un libro bello e terribile, questo di Stefano Massari, e sicuramente uno dei più importanti tra quelli letti ultimamente. Non è un libro per anime semplici, né per coloro che credono che la poesia sia un'attività sorgiva e consolatoria. Qui di consolatorio c'è molto poco, anche per il suo autore. Perchè Stefano si è seduto sulla soglia, quella estrema, e si è messo a parlare di morte, a tentare, come è possibile fare a un poeta, un suo personale viaggio d'Orfeo.
Un libro (Serie del ritorno, La Vita Felice, 2009) con una sua risolutezza, anche stilistica e (sia inteso del tutto positivamente) una forma alta di retorica cioè di arte del dire, e una struttura disciplinatamente organizzata in nove sezioni (ma bisogna contare almeno anche un prologo e un epilogo), sezioni che già nel  loro titolo pongono un problema interpretativo. Sono infatti frazioni di tempo di una intera giornata (dalle 00.00 di una ipotetica mezzanotte alle 03.24, dalle 03.35 alle 06.02, ecc), o forse frazioni diverse di diverse giornate, che coprono comunque, senza sovrapporsi,  un sorta di viaggio joyciano di ventiquattro ore, nel corso delle quali Massari interroga e si interroga, ricorda e dimentica, rimpiange e si accusa, costruendo un canzoniere dell'addio di stoffa diversa ma non meno coinvolgente di quello scritto a suo tempo dal suo prefatore Milo De Angelis. 

In queste frazioni di tempo ci sono anche dei vuoti, come degli interstizi nell'indice, nello scorrere di questa ipotetica giornata. Lo so, forse è una acribia fuori luogo (o forse essa è parte dell'inquietudine che questo libro suscita), ma viene da chiedersi che cosa è successo in questi vuoti, che cosa ad esempio  è accaduto negli undici minuti tra le 3.24 e le 3.35. Forse nulla, forse solo una sospensione del giudizio poetico di fronte alle vicende, forse un tirare il fiato. Forse l'anima ha pesato i suoi 21 grammi, come nel film di Alejandro González Iñárritu. Ed è singolare, sotto un certo profilo, in un diario diacronico,  cioè scritto dopo, questa attenzione al susseguirsi puntuale del tempo. Come un voler rivivere, nel senso letterale del termine, la registrazione di ogni singolo momento.
Il tempo è quello dell'esistenza o almeno quello dell'esperienza, racchiuso in un giorno. E poichè non possiamo  riavvolgerlo, come uno dei video dello stesso Massari, lo separiamo in brani, nel tentativo di comprenderlo meglio ricostruendo, in senso bergsoniano, un processo attraverso la memoria. Nel  fare questo, inevitabilmente, il tempo diventa qualcosa di diverso, tanto più nella mente speciale dell'artista. Cambia perfino volto, compiuto il tempo della vicenda narrata esso si trasforma, si separa: da una parte quello che resta "ai vivi ancora vivi e incurabili" (in quando destinati  anch'essi a morte), dall'altra quello dilatato e immisurabile dei morti, quello memoriale in cui , io autore, "ancora nell'impreciso tempo sopravvivo".
Anche il linguaggio segnala interstizi, diradamenti della scrittura sottolineati tipograficamente, come quegli spazi che si allargano tra i sintagmi, spazi a volte intuibili più che correttamente identificabili nella linearità tipografica. Potremmo intenderli come enjambements interni, come singhiozzi o chiasmi, potremmo usarli a piacimento come il punto di Fra Martino o la sibillina punteggiatura del famoso "ibis redibis non morieris in bello" di Alberico. Ma la scelta  ha una sua ragione nella caratteristica della memoria di presentarsi per frammenti e per ripetizioni, cosa quest'ultima che tra l'altro si riverbera in certi efficaci stilemi che usa Massari, come incipit reiterati, assilli di domande ecc. Il tempo si dispiega e si attorciglia, diventa un loop, o una figura topologica come un nastro di Moebius, e paradossalmente si accumula.  

dovevamo restare uniti.  tu ricordi ?
dicevi urla qui   sulla mia carne   non uccidere   non uccidere nessuno
abbi pietà della nostra paura   abbi pietà di te   il mare che cerchi è pieno di luce

e di nuovo:

dovevamo dividere tutto . tu ricordi ?
dicevi  chiedi perdono   solo al tuo corpo  non sei più figlio   sei misura di sterminio
e in questo male intero   totale   mangia il mio respiro   prendimi come se fossi
il mio destino

e qualche pagina più avanti:

dovevamo morire insieme . tu ricordi ?
dicevi   vieni da me   restami dentro   raccontami
tutto quello che insieme noi non vivremo
dimmi che non moriremo mai
che questa è la nostra notte e noi la raggiungeremo

e questa reiterazione, qui e altrove (dovevamo...dovevamo...,dicevi...dicevi...) è segnale disperato di un patto che la morte ha cancellato,  come se 
la morte fosse una colpa inappellabile e definitiva.

Del pari, l'impressione che il testo restituisce è anche quella di una scrittura combinatoria, una vaga tentazione, che offre al lettore, proprio approfittando degli interstizi, di smontare il testo per poi ricomporlo come su piste audio separate eppure inseparabili. E infatti questa scrittura è anche un dialogo continuo e serrato, per quanto retrospettivo. Sembra di capire che tutti i testi o le parti di testo in corsivo sono ascrivibili ad un'altra voce, ad un' altra persona o forse ad un "altro" da sé, con cui l'autore dialoga, si confronta, si scontra. Ma è anche un dialogo giocato sull'ambiguità: chi è che parla, chi ascolta, scambi di ruoli, teatro. 
Dal gioco della parti in scrittura appare anche un terzo personaggio, la morte, un personaggio parlante, niente affatto metaforico, un ospite minaccioso ed inevitabile, che si presenta e avverte i comprimari:

sono il muro   contro l'unghia   figlia che gioca   continente e cantilena
e sogna   e vede la paura dietro il letto alto   nonostante il legno   il caldo
del padre a guardia   inginocchiato a fare ombra   forza   storia

e più avanti:

sono storia la nuda   madre la sana   viscere e lana   sono pane
conio   bilancia   olio sulla pelle dei primi strappata   ai testimoni  conosciuta
alle croci sconosciuta   alla morte addestrata

e ancora:

sono morte la chiara   velocissima e immorale   bestia feconda
festa cardinale   acrobata superstite   destino senza il male
sono il figlio tribunale e la madre altare   muscolo visibile del vuoto


Anche gli exerga, posti acutamente all'inizio di ogni sezione, assumono un ruolo importante. Ad esempio questo di Milo De Angelis "nemmeno adesso hai simboli per chi muore", perfetta definizione della morte dalla parte del conoscibile, perchè (la morte) ha tutto in sé (syn ballein), tutto racchiude, attrae e comprime come un buco nero siderale, e essendo da questo punto di vista "chiara", come dice  Massari nei versi precedenti, ci sottrae gli strumenti per descriverla, la stessa capacità di descriverla, di farne simbolo. Ed è anche totalmente vera, infalsificabile, come ci avverte quest'altro di Amelia Rosselli, "il vero è una morte intera" (ma, conoscendo Rosselli, forse anche il contrario).
Di questo essere-per-la-morte (quasi in senso heideggeriano) non c'è però "cura", non c'è consapevolezza sufficiente ad accettare di essere in questa temporalità devastante. Tutto il libro è percorso da quella che Guglielmin chiamerebbe una "distanza immedicata" e perfino un rimpianto nei confronti di un corpo che è stato oggetto di amore ma anche luogo di effrazione, di infrazione, anche erotica, e poi nulla. Una sua moralità, di insegnamento o di rimorso, o di automoralità (tutto il tuo corpo    pane bianco e inerme / tutto questo mio sporco a cui acconsenti). Il campo di effrazione della volontà, diventa campo di conquista del male. Con la sconfitta, risponde l'anima: nascondiamo tutti un male    vivente per sempre / nascondiamo tutti una vita    altra e qualunque. E il corpo perde identità di persona (io ho un cancro e nessuno mi chiama per nome) se non nella memoria di chi sopravvive (sempre sei   il mio credere ai vivi  il mio errore  sei la fede).

Concludo con alcuni testi, compresa una singolare Totentanz su un'aria dannunziana (p.35), tra i molti molto belli di questo libro.  Libro - aggiungo - che dà l'idea in un certo senso di un'opera definitiva per il suo autore, oltre la quale forse non è più possibile indagare poeticamente se non liberandosene, o utilizzando altri mezzi. Con una precisazione, che qualsiasi selezione si tragga da questo libro, essa sarà sempre straniante, vaga, e profondamente ingiusta. Per cui (e lo dico raramente) se volete farvi un'idea di questo libro, compratelo. E non sarà sufficiente leggerlo una volta sola, vi avverto. Poichè  un libro di questo genere non è più pensabile "leggerlo" e basta. E non solo perchè sappiamo (chi lo sa) che il lavoro di Massari è ormai indistricabile dalla "visione", da una sorta di abitudine cioè a vederne  una rappresentazione non solo meramente grafica e lineare,  ma al contrario a più "piste" o tracce, o sensi, come appunto un video o - in altre parole - una partitura, la cui stampa è una registrazione di tempi e modi che però devono essere "eseguiti".

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