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Stefano Massari, SERIE DEL RITORNO, La Vita Felice 2009

Tutto avviene sul bordo dei pozzi.
     Sono in bilico, infatti, le parole di questo libro, sospese tra il grido del compito e il silenzio definitivo senza scampo, – il problema di ogni arte è, incontestabilmente, la sua forma. L’arte, quindi, è compito –
     Così ogni poeta si riconosce dal tono, dalle variazioni, dalle sue ossessioni, dai suoi strumenti per vivere. Nel procedere, infatti, nel continuare a scrivere, a furia di piccole incisioni, smottamenti, le parole si affilano, dicono meglio. E’ il momento in cui un’arte raggiunge la sua semplicità e si sottrae finalmente al tempo, al martirio dei suoi parassiti.

     Quando si ferma, però, la parola scopre di non essere mai stata veramente indispensabile alla vita. La vita non è cambiata, nulla è cambiato, o ci ha cambiato. Le parole hanno detto, immerse nelle immagini del mondo, nel compito del costruire qualcosa, del porgerlo a qualcuno: se non credi alla parola del mondo nessuno crederà alla tua (Henry Bauchau).
     Alla fine c’è solo un varco dove “comincia il lungo silenzio della luce”, dove c’è ancora la possibilità di un perdono.  Senza più maschere, appunto: “vi aspetto come fratelli”.
     Serie del ritorno suggerisce quindi un movimento necessario di percezione del reale attraverso variazioni, diari minimi, sequenze di ore; come se tutto avvenisse in istanti, in smottamenti e deflagrazioni in cui, all’interno del corpo, avviene qualcosa di irreparabile. Questo succede in un tempo che, pur essendo immerso nel grande ciclo delle morti e delle rinascite, rimane ancorato a una biografia minima – al tempo di una giornata –

     Ci sono alcuni versi miei che devo a Stefano: “Forse hai ragione tu / il mondo non vuole servi / vuole la sua morte, in pace”. In realtà sono parole di Stefano trasformate in versi. Venivano da una discussione sul senso della poesia e dicevano dell’impermeabilità del mondo al perdono, alla sua assoluzione. Perché i fratelli vogliono la lotta; le madri e i padri vogliono i figli solo per sé; i potenti il loro potere; le religioni il loro obolo; gli dei le loro vittime sacrificali; noi stessi la nostra autocommiserazione.
     Tutto questo rende la poesia un inutile spreco; non di essere scritta, ma probabilmente di essere vissuta. Questo perché la poesia sembra possedere una propria autonomia e una propria necessaria percezione della vita.
     La poesia non serve; piuttosto deve vivere, e per questo si difende. Sottraendosi, inimicandosi l’essere, lo spinge forzatamente contro le sue sbarre, lo scaraventa contro il suo stesso specchio.
     Così queste poesie abitano alle porte del tumulto. Sono torturate dalla ricerca di un punto stabile dal quale poter parlare, una posizione precisa del corpo in cui le ossa, il respiro, il sangue sono chiamati.
     In posizione, altrimenti le parole non parlano e il corpo si fa campo di battaglia di forze immani, pronte a recidere l’arteria – la parte, sembra, più sensibile di tutta questa geografia.
     Il corpo è assalito dal cancro, dal non senso, dal male e dal dolore: “io ho un cancro e nessuno mi chiama per nome / solo cavi dentro   elettrodi addosso   ovunque”.

 Da dove arriva questo dolore? Da colpe. Colpe di padri che hanno avuto figli, di figli che sono diventati padri. Dal corpo della donna come luogo deputato – per stirpe e maledizione – a generare il bene e il male, la possibilità di una salvezza o di una dannazione. Dalla colpa oscura di essere nati e non avere capito di avere ereditato un oscuro compito, un necessario tradimento.
     Da un enigma risolto per sgherro degli dei.
     Serie; ma anche, forse, litanie, sequenze temporali circolari, tappe prima dell’addio. Perché il tempo è la nostra vera casa; tempo scandito dal ritorno dei figli, nella paura del vivere (serie della paura), di ripetere il disastro.
     Eppure, in questo disastro, percepiamo il compito dell’arginare, del custodire, del dire qualcosa non solo per noi ma soprattutto per qualcuno. Percepiamo la durezza del compito di Adamo che è entrato nel tempo, il tempo indistruttibile, il suo duro lavoro per la terra e per i figli.
     Questo, certo, non può avvenire nel recinto delle rassicurazioni borghesi: patria, chiesa, matrimonio, ma all’ombra dell’unica Legge del tempo che regola i trasalimenti dell’esistere e li incanala verso una qualche forma alta di luce.
     Compiti essenziali, difficilissimi, eppure necessari: diventaremangiaredecidereritornarerestareconservaretossirepregarerestituire
     Tutto questo ha a che fare con la morte, con l’azzeramento di una colpa, di un tempo che ritorna nella sequenza dei suoi altarini. Il compito di “restituire ai padri corpi di figlio senza circoncisione   senza colpa   senza generazione”.
     Si tratta di rimettere in discussione ogni terribile cosa che ci appartiene e che abitiamo, l’intera epoca delle passioni tristi. Si tratta di tradire e poi ritornare con parole nuove, parole di riconciliazione.
     Di ridare persino senso alla paura.

(Nota critica di Sebastiano Aglieco)

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